2.3.3.1 INTERVISTA A FIORINO FIORINI, ORGANIZZATORE DEL DIDJIN’OZ
L’intervista a Fiorino Fiorini, noto musicista italiano di didjeridoo, ci permette di cogliere alcuni aspetti importanti in merito al suo percorso formativo e all’ arricchimento personale e culturale derivanti dall’incontro e dall’utilizzo di questo strumento e di confrontare la sua storia con il percorso artistico e le opinioni del suonatore Andrea Ferroni, espresse nell’intervista sopra riportata.
L’idea di intervistare anche questo musicista è motivata da una duplice esigenza: comprendere e conoscere meglio come nasce e si organizza un festival: il Didjin’Oz, che ha raggiunto una notorietà a livello internazionale, e rilevare come questo evento possa essere un buon mezzo di divulgazione della musica e della cultura aborigena. Nel corso dell’intervista si è voluto anche verificare quanto la presenza nelle esibizioni sul palco di artisti aborigeni della tradizione possa incidere su una più efficace diffusione di questa cultura. Strumento dell’intervista è stato l’utilizzo di skype e lo scambio di e-mail. Le domande poste e relative risposte vengono qui trascritte.
DOMANDA: Fiorino come hai conosciuto il didjeridoo e qual è stato il tuo percorso formativo?
RISPOSTA: Ho conosciuto il didjeridoo molto casualmente ma è stata attrazione fatale fin dai primi secondi. Lo ricorderò sempre quel momento. E’ stato il giorno di presentazione dei corsi di musica della scuola di musica popolare di Forlimpopoli, dove da ormai dieci anni insegno. Ottobre del 1998, entro a piedi nella rocca di Forlimpopoli (sede attuale del festival del didjeridoo) più che convinto di iscrivermi ad un corso di perfezionamento di chitarra, quando dal profondo dell’antica ghiacciaia della rocca sentii uscire e diffondersi in tutta la piazza interna un suono misterioso, profondo, sconosciuto alle mie orecchie fino a quel momento, che però catturò totalmente la mia attenzione. Mi sentivo come un orso che seguiva il profumo del miele, ma invece io seguivo il suono che mi condusse appunto alla ghiacciaia. In fondo ad essa c’era Paride, l’allora maestro, ora mio miglior amico e mentore. Mi iscrissi quindi al suo corso e da quel giorno abbandonai completamente la chitarra per dedicare anima e corpo allo studio del didjeridoo che col tempo sconfinò anche in un interesse e in uno studio senza precedenti sulla cultura del popolo custode di questo strumento, gli aborigeni d’Australia. Feci quindi un anno di corso intensivo con Paride dove ogni giorno dell’anno dedicai almeno un paio di ore allo studio del didjeridoo. Negli anni a venire andai diverse volte in Australia alla ricerca dei musicisti più conosciuti per seguire corsi privati e andai anche direttamente dai clan aborigeni, per acquisire una conoscenza maggiore della loro cultura e per comprendere il significato che ha questo strumento per loro.
D: Che cosa è per te questo strumento e da quanti anni lo suoni?
R: Suono questo strumento dal 1998 quindi circa da 16 anni. Il didjeridoo o Yidaki è diventato importantissimo nella mia vita, sempre presente anche quando viaggio. Mi aiuta ad affrontare la vita con uno spirito diverso, più vicino e più legato alla terra, al rispetto verso di essa e mi ha salvato da tantissime situazioni difficili. Era sufficiente che cominciassi a suonare lo strumento e qualche cosa di positivo spesso accadeva. Ora non mi sto a dilungare troppo ma ti giuro che è così. Mi dà sicurezza e la forza di affrontare situazioni difficili. Se dovessi quindi rispondere alla domanda che cosa è per me il didjeridoo, ti rispondo che è un talismano.
D: Come e quanto ti ha arricchito l’Yidaki e la cultura aborigena?
R: L’Yidaki e la cultura aborigena, come ti ho anticipato, hanno cambiato la mia vita radicalmente. Prima di conoscere lo strumento vivevo una vita di routine, una vita uguale a quella della maggior parte delle persone. Con l’avvento dell’Yidaki invece, oltre ad acquistare sicurezza nell’affrontare situazioni difficili, mi ha aiutato proprio ad uscire dagli schemi che la società ti impone, dalle etichette che le persone che ti circondano ti appiccicano, di uscire dalla scena del “film” che fino ad allora avevo vissuto e di abbandonare la parte che tutte le persone si aspettavano da me. Insomma, in parole povere, mi ha aiutato a guardarmi dentro, a conoscermi meglio sia nei pregi che nei difetti, nei limiti che avevo e nelle possibilità che non avevo mai considerato prima. La cultura aborigena, principalmente, mi ha aiutato a capire l’importanza di “madre Terra” e del rispetto che bisogna portarle ogni giorno della nostra vita se vogliamo preservarla per il nostro futuro e per quello dei nostri figli.
D: Nel tuo percorso di studio ci sono stati momenti in cui hai trovato difficoltà ad entrare in contatto con le usanze legate a questo strumento?
R: Direi proprio di no. Forse per il fatto che organizzando questo festival sono venuto in contatto con molte persone che mi hanno accompagnato in questo percorso, soprattutto artisti aborigeni, ma anche non, che mi hanno aiutato ed introdotto nelle usanze di questo popolo. D: Come è nata l’idea del festival? Hai qualche aneddoto da raccontare?
R: L’idea del festival è nata casualmente una notte della lontana estate del 2003 quando io, Francesca Casadei, che è una amica con cui ho condiviso i miei primi anni di apprendimento musicale di questo strumento e Alan Dargin, un ragazzo aborigeno che venne con noi in Italia dalla Spagna da un festival del didjeridoo dove lo abbiamo conosciuto, ci trovammo davanti a una birra. Alan propose di organizzare una serata a Cesenatico (il luogo dove viveva Francesca) dedicata al didjeridoo. E così da allora ogni anno portammo avanti questa iniziativa che di edizione in edizione diventò sempre più importante e conosciuta.
D: Su cosa si basa la tua scelta degli artisti presenti al festival?
R: Il Didjin’Oz è nato come festival del didjeridoo ma con il passar degli anni l’importanza per la cultura aborigena è diventata sempre più rilevante. Quindi, in primis cerco di contattare artisti aborigeni che sono in tournée o che pensano di venire in tournée in Europa. Se non ne trovo, provo ovviamente a contattarli personalmente, anche se è molto difficile e soprattutto sarebbe molto costoso farli venire dall’Australia solo per il nostro festival. Il budget del festival è purtroppo molto limitato e negli ultimi anni con la crisi, come tutti sanno, i soldi dei contributi statali dedicati alla promozione della cultura si sono azzerati. Una volta scelti gli artisti aborigeni, dove ogni anno cerco, per quello che posso, di fare venire artisti diversi e soprattutto appartenenti a clan diversi, in modo da diffondere tutte le sfaccettature della cultura aborigena, ricerco altri artisti nel resto del mondo che suonano il didjeridoo. La prima cosa che conta per me non è quanto l’artista o il gruppo sia bravo ma piuttosto se mi trasmette emozioni. Quindi, tra questi cerco di scegliere artisti con caratteristiche differenti in modo da diversificare il più possibile la scena musicale. Altro fattore fondamentale è cercare di attirare più persone possibili che non siano solo del settore, cioè che non suonino necessariamente il didjeridoo o ancora meglio che non conoscano lo strumento. Cerco di raggiungere questo obiettivo invitando anche artisti che hanno mescolato il suono del didj con musica di contaminazione la più diversa possibile: dall’etnico al jazz, dal tribale alla fusion, dal funky al rock.
D: Al festival sono presenti artisti aborigeni?
R: Di norma si, cerco sempre di fare in modo che siano presenti, anche se purtroppo non è sempre così. Per esempio nel 2011 e nella scorsa edizione non erano presenti suonatori aborigeni per problemi di varia natura.
D: Cosa comporta gestire un festival di settore di queste dimensioni?
R: Il Didjin’oz non è un festival di grosse dimensioni, ma è considerato in Europa uno dei più grossi a livello di organizzazione e presenza di pubblico: circa 1500 persone nelle due serate musicali e giornate di corsi e workshop. Tuttavia, penso che sia quello realizzato con budget minore di tutti o quasi. Proprio questa è la difficoltà principale, cioè la carenza di contributi pubblici e privati. Invitare artisti che provengono dall’altra parte del mondo è molto oneroso sia in termini economici che in termini organizzativi. La difficoltà principale è proprio la gestione economica che ogni anno mi manda in crisi perché vorrei offrire al pubblico artisti sempre di alta qualità e uno spettacolo sempre diverso, che anno dopo anno migliori sempre più, ma tutto questo è tenuto a freno proprio dalla carenza di contributi che invece di aumentare (grazie al fatto che attiriamo gente da tutta Italia e anche dall’Europa) diminuiscono anno dopo anno.
D: Come ti sembra abbia reagito il popolo italiano all’introduzione e diffusione di questo strumento e soprattutto di questi eventi?
R: Questa è la cosa che più mi ha meravigliato. Il suono del didjeridoo rapisce chiunque si presenti al festival. Ovviamente a persone non del settore bisogna farglielo ascoltare in maniera che sia gradevole, vario e mescolato ad altre contaminazioni musicali, ma l’interesse è aumentato di anno in anno. La diffusione di questo strumento negli ultimi dieci anni è aumentata esponenzialmente vedendo nascere bravissimi suonatori in tutta Italia anche grazie al nostro festival che ha permesso a molti appassionati di conoscere artisti che difficilmente avrebbero avuto la possibilità di incontrare.
D: Pensi che ci sia maggiore conoscenza e coscienza verso la tradizione aborigena e verso le loro usanze rispetto al decennio scorso?
R: Assolutamente sì. Anche se l’ignoranza è ancora molto alta, credo che la consapevolezza dell’importanza della cultura aborigena, che è una delle più antiche ancora esistenti, ma anche delle altre culture di minoranze etniche in tutto il mondo, sia aumentata E’ proprio questa una delle missioni più importanti del nostro festival.
D: Hai partecipato ad altri festival del didjeridoo?
R: Direi che i più importanti festival europei, italiani e australiani li ho frequentati tutti, anche se in veste di suonatore solo a un paio di essi ho preso parte. Ma la mia partecipazione più importante è stata nel 2008 la settimana di volontariato al GARMA festival, che è uno degli eventi sulla cultura aborigena più importanti in tutto il mondo che si organizza in Australia nei territori del Nord East Arnhem Land. Lo considero il festival dei festival110. Due sono gli aspetti a mio parere più interessanti da quanto emerge dall’intervista: il percorso formativo dell’artista che trascende l’ambito musicale per allargarsi a quello storico-culturale e l’importanza del festival non solo come evento musicale ma anche come strumento di diffusione della cultura aborigena. Riguardo il percorso formativo, Fiorino Fiorini, a differenza di Andrea Ferroni, inizia la sua esperienza guidato dal maestro Paride Russo. In seguito frequenta più corsi di approfondimento in Europa e in Australia. La sua grande passione e il suo impegno gli consentono di entrare in contatto con vari clan aborigeni dove può arricchire ulteriormente la sua conoscenza.
Quanto al secondo aspetto, Il musicista evidenzia come Il Didjin’Oz inizi nella forma di festival del didjeridoo e quindi musicale, per assumere poi con il passar del tempo un rilevante significato per la cultura aborigena grazie alla partecipazione di artisti aborigeni disponibili a esibirsi sul palco, su invito del nostro musicista. Suo principale obiettivo, infatti, è di far conoscere al pubblico tutti i diversi risvolti culturali delle comunità aborigene. Non manca di sottolineare infine come la mancanza di contributi statali renda sempre più difficile la realizzazione del suo intento.
110 Intervista tramite e-mail e skype della scrivente a Fiorino Fiorini del 26 febbraio 2014, non pubblicata.